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Si ride e si pensa con “Chi m’ha visto”

In attesa dei capolavori della Mostra del Cinema di Venezia, in corso proprio in questi giorni, prepariamoci a ridere e a riflettere con il film italiano “Chi m’ha visto”, con Pierfrancesco Favino e Giuseppe Fiorello, regia di Alessandro Pondi, nelle sale dal 28 settembre. Un film che riporta al gusto della commedia all’italiana degli anni ’60 dei Maestri Mario Monicelli, Dino Risi e Luigi Comencini.

La pellicola, ispirata a un fatto vero, è ambientata nella Puglia dei giorni nostri e racconta la storia rocambolesca, comica e grottesca di Martino Piccione, chitarrista di grande talento che collabora con tutte le più grandi star della musica leggera italiana. Peccato però che nessuno si accorga di lui, perché l’attenzione del pubblico è tutta rivolta al cantante famoso di turno. D’altra parte il mondo dello spettacolo è così: non conta quanto vali, conta quanto appari e proprio in nome di una esagerata ed effimera apparenza, si finisce per dimenticare la sostanza delle cose. Tutte le volte che Martino ritorna a casa nel suo paesino in Puglia, deve subire le ironie dei suoi concittadini che lo sfottono per la sua ossessione di diventare un musicista famoso. Con l’aiuto del suo migliore amico Peppino, un “cowboy di paese” con pochi grilli per la testa, Martino decide di mettere in atto un piano strampalato per attirare finalmente l’attenzione mediatica su di sé: organizza la propria sparizione. Le conseguenze di questo gesto estremo sono del tutto inaspettate.

Il film rappresenta il debutto alla regia di Alessandro Pondi, scrittore e sceneggiatore che per il cinema ha firmato pellicole come “K il bandito” di Martin Donovan, “Litium Cospiracy” di Davide Marengo, “Mio papà” di Giulio Base, “Poli Opposti”, “Natale a Beverly Hills” e “Natale in Sud Africa”.

Oltre ai protagonisti Pierfrancesco Favino e Giuseppe Fiorello, il cast del film è di tutto rispetto: Mariela Garriga, Dino Abbrescia, Sabrina Impacciatore, insieme a tantissimi altri ospiti sorprendenti, eccezionalmente in prestito al cinema per l’occasione.

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Delta del Po e Polesine, una vacanza “lenta” nella natura

Un paesaggio sospeso tra terra e mare dove immergersi nella natura. Il Parco Delta del Po, Riserva della Biosfera Unesco “dove il Po diventa mare e il mare diventa terra”, è tutto questo e, con l’estate che avanza, costituisce una tentazione irresistibile per una vacanza dai ritmi lenti in cui sconnettersi dal mondo e connettersi con la natura, scoprendo tutto il mosaico di ecosistemi del parco a piedi, in barca, a cavallo o in bici.  I percorsi all’interno dei 140mila ettari di Parco, che si estende tra Veneto ed Emilia Romagna, sono praticamente infinti e piacevolmente adatti a tutti in un territorio praticamente pianeggiante che si apre su una moltitudine di paesaggi diversi.  In giornata si può scoprire la Sacca di Scardovari, paradiso dei cormorani e laguna più ampia del Delta dove si allevano le cozze nelle caratteristiche le “peociare” o Porto Tolle, nel cuore del parco e una delle zone più ricche di biodiversità in Italia. Da non perdere anche il percorso che dal Lido di Volano porta al Lido delle Nazioni, dove ci si può imbattere nei bianchi cavalli della Camargue al pascolo o le suggestive saline nei pressi di Comacchi. La tentazione tuttavia è quella di prendersi qualche giorno in più e lasciarsi travolger dal paesaggio e dai ritmi lenti di un territorio così particolare, magari trattenendosi qualche giorno al Barricata Holiday Village di Porto Tolle dove il grande fiume incontra il mare, tra canneti, valli, dune e arginiProprio qui, alla spiaggia delle Conchiglie, è stato ambientato il video di Voci, tratto dall’ultimo album di Zucchero, Black Cat. Il video si apre con l’immagine di Zucchero circondato da un paesaggio incredibile, quello del Po di Maista, il ramo più piccolo, ma anche più suggestivo del Delta del Po, si intravedono poi l’oratorio Mazzucco a fianco della Valle Pozzatini, Ca’ Vendramin e il canale di bonifica, il Casone di Valle Venier e ancora gli uccelli che si alzano in volo a Valle Sagraeda, l’argine del Po di Goro, dove la terra sembra incontrare il mare e, infine, la spiaggia delle Conchiglie.

IL DELTA DEL PO IN BIANCO E NERO Se poi si vuole scoprire il fascino, la storia e le tradizioni del Delta del Po, fino al 2 luglio il Palazzo della Roverella di Rovigo offre uno scorcio davvero unico sulla vita nel Delta del Po settant’anni fa. Il percorso espositivo raccoglie infatti cento scatti di Pietro Donizelli considerati un capolavoro della fotografia neorealista e dedicati alla “Terra senz’ombra. Il Delta del Po negli anni cinquanta”. La mostra permette inoltre di visitare la pinacoteca del Palazzo, generalmente chiusa al di fuori dei periodi di esposizione, dove sono si possono ammirare artisti come Tiziano, Tintoretto, Tiepolo e Palma il Giovane. Per oltre settant’anni comunque il Delta del Po è stato protagonista del grande schermo italiano in quaranta film d’autore, documentari e i videoclip girati nel Polesine dagli anni Quaranta del secolo scorso a oggi. Uno scenario davvero speciale per questa terra tra due fiumi, Po e Adige, che si intravede tra l’altro nel sesto episodio di Paisà di Roberto Rossellini, girato a Porto Tolle e nella laguna del Basson, suggestivo scenario naturale a ridosso della foce del Po di Pila. Non solo. Nel 1943 Luchino Visconti girava Ossessione a Occhiobello portando sul maxi schermo atmosfere tipicamente polesane: l’aria pesante e calda, il frinire delle cicale, l’umidità che s’incolla ai corpi e alle vite dei protagonisti di questa torbida vicenda. Una vicenda che esordisce nell’osteria dei Bragana, in zona Polesella e che si snoda lungo gli argini ferraresi del Po. Anche Michelangelo Antonioni  aveva in mente il Polesine come luogo emblematico di sentimenti forti dove ambientare Il grido, con Alida Valli. Il film avrebbe dovuto essere girato tra Pontelagoscuro, Occhiobello, Ca’ Venier e Punta Maistra, ma la rotta del Po, nel 1956, fece operare dei tagli alla sceneggiatura e un ripensamento generale di tutte le location. La particolare atmosfera di queste terre ha poi ispirato La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati, divenuto un vero e proprio cult, con molte sequenze registrate a Ca’ Venier e nelle valli da pesca di Scardovari. Qualche scorcio di Contarina, frazione di Porto Tolle, lo ritroviamo anche ne La vacanza (1971), una delle prime opere di Tinto Brass, che vede protagonisti Vanessa Redgrave e Franco Nero.

TESORI RODIGINI Una visita alla mostra “Terra senz’ombra. Il Delta del Po negli anni cinquanta” offre inoltre un’occasione da non perdere per  scoprire Rovigo, città delle rose citata dall’Ariosto  e cuore del Polesine, la leggendaria terra tra i due fiumi (Po e Adige), snodo di commerci, storia e tradizioni, ma sostanzialmente sconosciuta ai più che, in genere, passano da Rovigo senza fermarsi. Ed è un peccato visto che le tracce della storia pluricentenaria della città delle rose non mancano come i numerosi palazzi nobiliari dell’epoca d’oro della città veneta che si affacciano su Piazza Vittorio Emanuele  dal cinquecentesco Palazzo Roverella, all’Accademia dei Concordi fino alla Loggia dei Nodari e al Teatro Sociale. In qualsiasi altro posto al mondo a determinare una sosta basterebbe il Tempio della Beata Vergine del Soccorso (detto la Rotonda per la sua forma ottagonale), chiesa dove il tema sacro si sposa, singolarmente, a quello civile con grandi tele raffiguranti i miracoli della Vergine e i podestà veneti. La cucina rodigina merita poi una pausa prolungata. Dopo un intenso tour tra arte e monumenti, i panini gourmet rivisitati con i prodotti della tradizione, come quello a base di baccalà mantecato e cipolle caramellate, creati dall’Osteria Trani rappresentano la giusta ricompensa, soprattutto se accompagnati dall’immancabile cicchetto. Le tipiche sarde in saor (sarde fritte in agrodolce) si assaggiano invece da Alicanto, magari su un tavolino all’aperto affacciato sull’ex ghetto della città.

VILLE PALLADIANE, DISTRETTO DELLE GIOSTRE E TESORI ETRUSCHI I dintorni di Rovigo fanno parte di quel patrimonio artistico culturale di cui talvolta si ignora la grandezza, ma  dove storia e natura, tradizione e innovazione si fondono in un territorio ricco di eccellenze ancora poco conosciute, alla scoperta di un turismo capace di sorprendere diversamente nelle varie stagioni. Basta allontanarsi di pochi di chilometri dal capoluogo veneto, in una campagna piatta attraversata da una ragnatela di canali, capita, sorprendentemente, di imbattersi in ville cinquecentesche dove arte e natura sembrano fondersi in gioielli architettonici come la villa Badoer di Andrea Palladio a Fratta Polesine. Una passeggiata nella minuscola Fratta Polesine lungo il canale dello Scortico è particolarmente romantica al tramonto, quando l’ocra e l’arancione del cielo illuminano la Baodera e la vicina villa Molin Avezzù e si riflettono nell’acqua. A pochi minuti dai palazzi nobiliari del borgo, la locanda “Al Pizzon”, ricavata in un antico mulino, è il rifugio ideale dove godersi le ricette della tradizione (il menù degustazione costa 30 euro), una cucina a metà strada tra quella veneta e quella estense di Mantova e Ferrara. Se invece da Rovigo si va verso Est ci si imbatte in Adria, città fondata dagli etruschi su un porto di fiume e punto strategico dei trasporti fluviali dell’era paleo veneta e che ha dato il nome al Mar Adriatico. Qui, al Museo Archeologico Nazionale, sono custoditi tesori dell’arte etrusca, ma anche greca e romana e reperti più antichi del territorio. Se poi ci si spinge un po’ più in là, a 50 km da Rovigo, si può persino visitare il Museo della Giostra a Bergantino. Il Polesine infatti è la capitale del distretto della giostra made in Italy.

 

 

 




Case & Cinema: vivere dentro a un film

Vivere come dentro a un film potrebbe presto diventare realtà per alcuni fortunati  che potranno letteralmente portare il cinema fin dentro le pareti di casa. Sono infatti in vendita case in cui sono stati ambientati set di film diventati veri e propri cult. E si possono comprare online sul sito di immobiliare.it.

A Cortina d’Ampezzo è in vendita, con prezzo riservato, la villa dove sono stati girati ben blockbuster dei cinema di tutot il mondo: nel 1963 La Pantera Rosa con David Niven e Peter Sellers e, nel 1981, 007 Solo per i tuoi occhi con Roger Moore e Carole Bouquet.

A Roma per 4,1 milioni di euro si può diventare proprietari di un palazzo che nel 1977 è stato il set di Una giornata particolare, uno dei più intensi capolavori del grande schermo, di Ettore Scola con Sophia Loren e Marcello Mastroiani e, nel 1995, del Romanzo di un giovane povero con Alberto Sordi.  Non lontano da Roma, ma in provincia di Latina, a Terracina è in vendita per “soli” 3 milioni di euro la casa dove Carlo Verdone, nel 1998, ha filmato alcune scene di un altro dei pezzi da novanta del cinema degli ultimi vent’anno: Gallo Cedrone.

Per meno di un milione di euro invece si può trovare a Torino l’appartamento  dove sono stati girati sia Bianca come il latte, rossa come il sangue, film con Luca Argentero del 2013, sia La verità, vi spiego, sull’amore, film con Ambra Angiolini, Giuliana De Sio e Carolina Crescentini che sarà nelle sale dal prossimo aprile.

 

 




“AGNUS DEI” – IL CORAGGIO DI “DISOBBEDIRE”

di Elisa Pedini – Nelle sale italiane dal 17 novembre, il film “AGNUS DEI”, per la regia di Anne Fontaine. Toccante, intenso, delicato, ma anche duro nella realtà che espone. Pellicola, coerente, solida, lucida, d’una profondità umana e psicologica impressionanti, che coinvolge e sconvolge, entrando, letteralmente, sottopelle. I fatti narrati sono ispirati a eventi realmente accaduti e legati alla vita della dottoressa Madeleine Pauliac, medico dello staff di un ospedale di Parigi, che, all’inizio del 1945, in qualità di ufficiale medico delle Forze Interne Francesi, partì per Mosca per dirigere la missione di rimpatrio francese. Fu, quindi, nominata Primario dell’Ospedale francese di Varsavia e messa a capo delle attività di rimpatrio all’interno della Croce Rossa Francese. Condusse la sua missione in tutta la Polonia. Fu in queste circostanze che scoprì l’orrore della violenza dei soldati russi sulle donne. Gli stupri erano all’ordine del giorno, addirittura, collettivi nei conventi ed è proprio di queste suore che lei si occupò, per fornire loro aiuto medico. Le supportò nella maternità e nel parto, nel sostegno morale e per conseguenza, nel tutelare i conventi. Sfortunatamente, Madeleine Pauliac, morì l’anno successivo in un incidente vicino Varsavia. Il nipote della dottoressa ha ritrovato i diari della zia e ha proposto ai produttori di utilizzarli per un film. La Fontaine ci dice che ciò che l’affascinò profondamente «fu il concetto di disobbedienza coraggiosa» che trapelava da quegli scritti. Purtroppo, il materiale a disposizione era troppo poco e così la regista ha condotto ella stessa ricerche in Polonia, sia per verificare la storia, che per conoscerla e approfondirla. Quindi, ha dato un senso, un’interpretazione, a quanto raccolto, per calarsi nella psicologia di queste donne. Mi piace sottolineare che Anne Fontaine, per conoscere nei dettagli la vita ritirata e quotidiana delle suore, ha persino fatto due ritiri in conventi di monache benedettine. Per questa ragione, in “AGNUS DEI”, ambientazioni, abiti, abitudini, ritmi si mostrano estremamente fedeli alla realtà. Inoltre, le conversazioni intrattenute con queste suore le hanno fornito “materiale umano”, che ritroviamo in tutta la sua vibrante fragilità e profondità nel film. La trama, dunque, si basa su tutto questo. Ve la riassumo rapidamente, perché, secondo me, è sulle emozioni e sul carico di umanità, che è più importante soffermarsi: Mathilde è una giovane assistente medico francese della Croce Rossa. È il 1945 ed è in missione in Polonia per assistere i sopravvissuti francesi della Seconda Guerra Mondiale. L’attività al dispensario è frenetica. Nel mentre, Teresa, una giovane novizia d’un convento benedettino lì vicino, scappa e piomba al presidio medico in cerca d’aiuto. Fra emergenze e problemi di lingua, la suora viene invitata ad andarsene. Tuttavia, lei non se ne va. In una stoica resistenza in mezzo alla neve, prega e attende. Mathilde, vedendola, decide di capirci di più. Così, viene portata in un convento, dove alcune sorelle incinte, vittime degli stupri ripetuti dei soldati sovietici, vengono tenute nascoste. È qui, che inizia un vero viaggio nell’anima umana fra fede e scienza, fra inconciliabilità tra la violenza dello stupro, la maternità e la fede. Mathilde, diventa l’unica speranza per queste donne, il loro unico appoggio, il loro unico sfogo. “AGNUS DEI”, piacenti o no, fa riflettere e sconquassa l’anima. Per questo, mi piace insistere sul carico umano di questa pellicola, che s’estrinseca, precipuamente, nelle due tematiche, a mio avviso, cardine, di questo film: la «disobbedienza coraggiosa», come la chiama Anne Fontaine e cui ho accennato all’inizio e la fragilità umana, non solo nell’impotenza fisica, ma anche nell’anima e nella fede stessa. Tutta l’azione parte da un coraggioso atto di “disobbedienza” d’una suora alle rigide regole del convento. Al principio, esso sembrerebbe non sortire alcun risultato; ma è proprio un’altra “disobbedienza”, che conduce avanti la storia: quella di Mathilde verso gli ordini del presidio medico della Croce Rossa Francese. Mi piace sottolineare che non parliamo di “disobbedienza” superficiale, qui, siamo di fronte a coscienti atti d’individualità, ovvero, il valore della legge morale interiore, che, soverchia lo status quo e di fronte all’ignominia e all’orrore e a quanto ritiene ingiusto, s’eleva, per trovare una compensativa soluzione di pace. Dunque, le azioni di scelta individuale si susseguono, quasi epidemicamente, fino ad arrivare alla figura del medico ebreo, Samuel, che, in realtà, è un personaggio di fantasia. La sua figura non esiste all’interno dei diari della Pauliac, ma merita qualche parola perché è funzionale: non solo, con la sua ironia e con le sequenze a lui legate, abbassa la tensione; ma anche, è il personaggio che nasconde il “fantasma”, ovvero, la motivazione storico-personale: la sua famiglia è stata interamente deportata e sterminata. La seconda e ultima tematica, che mi piace sottoporvi, è quella della “fragilità”, ovvero, quell’umanità profonda di cui questo film si fa portavoce. C’è umanità nella paura e nel disgusto delle suore; nel coraggio di Teresa e Mathilde; nella maternità e nell’amore delle sorelle; nei dubbi su una fede che, davanti allo strazio, vacilla; nell’amicizia che s’instaura tra Maria e Mathilde; nel rapporto tra Samuel e Mathilde. Tuttavia c’è umanità, anche, nella brutalità della violenza e dello stupro, nell’assurdità della guerra, nell’atrocità degli atti della Badessa. L’essere umano è tutto questo. Sulla base di quanto detto finora, penso sia inutile sottolineare le innumerevoli emozioni che si provano guardando “AGNUS DEI”. Un capolavoro dal ritmo morbido, mai stressato, supportato dal silenzio glaciale, in senso stretto e in senso lato, dei corridoi e degli ambienti spogli del convento, eppure, incredibilmente veloce nel suo scorrere e tremendamente impattante. Infine, non posso non sottolineare l’interpretazione della protagonista, Lou de Laâge, che, seppur giovanissima e inesperiente, riesce a rendere con grande spessore e profondità il personaggio di Mathilde, creando un’atmosfera di luminosità sincera intorno a sé, che finisce per dare luce all’intero film.




“ANIMALI NOTTURNI” – UN FILM SCONVOLGENTE E AVVINCENTE

di Elisa Pedini – In sala dal 17 novembre, il film “ANIMALI NOTTURNI”, a opera dello sceneggiatore e regista Tom Ford. Nell’adattamento al cinema del libro “Tony & Susan” di Austin Wright del 1993, il cineasta si è concentrato con uguale intensità sia sulla parola scritta che sull’immagine in movimento, dando vita a un prodotto solido e ben strutturato. Pellicola geniale, tremendamente coinvolgente, assolutamente sconvolgente e brutale, che fino all’ultima, intensa, inquadratura, non svela il suo lucido, cinico piano. In un climax di tensione, lo spettatore è portato a cercare un senso, invitato dagli indizi, disseminati nello svolgimento della trama, a tentare d’inferire la situazione, ma, è la fine, la chiave di lettura. La straordinaria intelligenza e bellezza del film fanno decisamente perdonare e dimenticare i primissimi cinque o sei minuti, che risultano abbastanza inutili e anche bruttini. “ANIMALI NOTTURNI” è, potrei dire, basato sulle contrapposizioni: non solo, ben nette tra protagonisti e antagonisti: Edward vs Hutton, Ray vs Bobby; ma anche, di passioni, tra amore e freddezza, malinconia e vendetta; di trama: la “realtà” contro la “fiction”; di luoghi: ambientazioni lussuose e cittadine contro posti umili e desolati in mezzo al nulla; di luci: i toni freddi e la penombra, quando non la notte, fronteggiano il giorno e i toni caldi in una “partita” continua, fino all’ultima scena, dove, a mio avviso, persino il colore del vestito della protagonista ha un senso, che definirei, freudiano. La tecnica della storia-nella-storia e delle contrapposizioni, crea un forte senso di suspense e di ansia, che tengono lo spettatore come in apnea e lo trascinano a desiderare, ardentemente, di sapere come tutto andrà a finire. Le interruzioni, operate ad arte, completano il gioco d’una sceneggiatura decisamente solida. La trama di “ANIMALI NOTTURNI” è, dunque, complessa. Susan e Hutton Morrow sono sposati, ricchi e con lavori interessanti. Susan ha una galleria d’arte ed è al suo secondo matrimonio. In realtà, suo marito non c’è mai, per viaggi, diciamo, d’affari. Lei, è una donna, che si descrive pragmatica e cinica, ma in realtà è depressa perché vive una vita priva d’amore e d’intimità. Il suo primo marito è Edward Sheffield, un romantico, un uomo che vive le sue emozioni e i suoi ideali. Lui, lavora in una libreria e intanto insegue il suo sogno di fare lo scrittore, lei, al principio, è affascinata dal profumo della libertà dei sogni e della forza d’inseguirli; ma, poi, comincia a volerlo diverso, fino al punto in cui la situazione degenera in un modo brutale e tutto finisce. È proprio dall’ex marito, che Susan non sente ormai da anni, che, un bel giorno, riceve un pacco: un romanzo, dal titolo “Animali notturni”, dedicato a lei. Hutton è di nuovo fuori città e la donna decide d’iniziare subito a leggere il libro. Il racconto è violento e devastante e la turba sin dal principio. È qui, che inizia la storia-nella-storia e l’intrecciarsi, nonché il contrapporsi, della vita “reale” e quella della “fiction”. Edward narra la storia di Tony Hastings. Siamo in Texas e l’uomo sta viaggiando in macchina, di notte, con la sua famiglia. Vengono assaliti e buttati fuori strada da un manipolo di pazzi, capitanati da Ray Marcus. La tensione raggiunge livelli molto alti, anche perché, fino all’ultimo, non si riesce a comprendere come evolverà la situazione. Purtroppo, molto male. La moglie e la figlia vengono rapite e lui abbandonato in mezzo al nulla. Quando riesce a tornare nella civiltà, Tony va subito alla polizia e il caso viene preso in carico dal Tenente Bobby Andes. Da questo momento, mentre le indagini, nel romanzo, si dipanano in situazioni sempre più inquietanti e brutali, la mente di Susan è spinta a ripiegarsi in un’indagine diversa, interiore, profonda e non per questo meno violenta. Riaffiorano i ricordi. Il passato torna al presente, con tutta la sua carica d’amore e di passione, di errori e di dolore. La storia narrata da Edward è forte, molto forte, tremendamente triste e cattiva. Queste precise caratteristiche richiamano altrettanto puntuali parole e momenti, nella memoria di Susan, relativamente alle scelte che ha fatto, al come le ha fatte e alle conseguenze che sono seguite alle sue decisioni. Il dolore che si risveglia in lei, comporta il riaffiorare d’un amore che lei pensava, ormai, finito e comincia a percepire il sapore della vendetta fra le righe di quel romanzo di Edward. Una percezione che ha, anche, lo spettatore. Come ho detto all’inizio, ci sono indizi che fanno presagire che ci sia molto di più oltre al romanzo. Tuttavia, quella sensazione di profonde inquietudine e confusione, dovute all’incertezza su come evolveranno, al dunque, gli eventi, non abbandona mai lo spettatore, mentre la storia procede verso una resa dei conti che riguarderà sia Tony, l’eroe del romanzo, che Susan stessa. “ANIMALI NOTTURNI” è un film, decisamente, ben costruito. Un cast straordinario completa l’opera: una convincente Amy Adams, nel ruolo di Susan Morrow, rende, anche col solo sguardo, le trasformazioni psicologiche che il suo personaggio subisce nel corso della vita; anche l’interpretazione di Jake Gyllenhaal, che recita nella parte sia di Edward che di Tony, risulta ben modulata sui personaggi, generosa e piuttosto intensa; Michael Shannon, ci mostra un Bobby Andes molto profondo e sfaccettato; infine sta a Aaron Taylor-Johnson interpretare, in modo acutamente credibile, lo psicopatico Ray Marcus.




“SING STREET” – UN INNO ALLA VITA

di Elisa Pedini – In sala da domani, 9 novembre, il film “SING STREET”, per la regia di John Carney. Pellicola veramente ben fatta: coinvolgente, commovente ed anche divertente, “romantica” nel senso più pieno del termine, ovvero, non solo dal punto di vista emotivo-sentimentale, ma anche di valori e ideali. Un film di formazione, costruito sulle fondamenta musicali delle band inglesi degli anni ’80 e sulla straordinaria rappresentazione tanto delle atmosfere, quanto delle ambientazioni, quanto delle mode di quegli anni. Lo spettatore viene, letteralmente, calato in quel periodo storico e lo vive, contemporaneamente, ai personaggi. “SING STREET” è ambientato nella Dublino degli anni ’80, quando, una profonda recessione socio-economica porta alla mancanza di lavoro, alla fuga dei giovani, a profondi cambiamenti nelle economie domestiche. «È una storia di contrasti» ci dice il regista «tra Irlanda e Inghilterra, tra Dublino e Londra, tra ricchezza e povertà, tra scuola privata e scuola pubblica (…) una storia di “prima e dopo”». Tutto questo, filtrato dagli occhi d’un adolescente, Conor, che si trova, da un lato, a dover fare i conti con quanto cambia nella sua vita relazionale e dall’altro, ad assistere allo sgretolarsi del matrimonio dei suoi genitori, in un’Irlanda che, in questo periodo, proibisce il divorzio e non ammette relazioni al di fuori d’un’unione regolare. La vita in famiglia ha, da molto tempo, forti tensioni, registrate in modo diverso dai tre figli. La bolla scoppia con il sopraggiungere dei problemi lavorativi del padre. Una mattina, viene comunicato a Conor che verrà tolto dalla scuola privata, che frequenta, per andare alla scuola pubblica: la “Synge Street”. Nonostante le rimostranze del ragazzo, tutto è stato già deciso. Mi piace, qui, sottolineare, ancora, le parole di Carney: «volevo fare qualcosa di musicale che fosse ancora più personale, qualcosa solidamente autobiografico». Difatti, John, come Conor, è passato da una scuola privata, raffinata ed elegante a quella di Synge Street, per un intero anno e ha subito le stesse trasformazioni del personaggio principale del film: da un’esperienza educativa benestante, a una popolare, più violenta e più rozza. Tuttavia, nonostante l’ambiente decisamente ostile, Conor ha una mente libera e usa proprio la sua intelligenza e il suo talento per emergere da quel contesto. L’occasione gli arriva, in realtà, del tutto casualmente, dal tentativo d’avvicinare una ragazza bellissima: Raphina. È assolutamente tangibile l’abisso, reale o apparente, che li separa; ma Conor ha un’idea, fulminea quanto folle, che mette immediatamente in atto: propone a Raphina di fare la protagonista femminile del video della sua band. Lei accetta e gli da il suo numero. Sembra tutto straordinariamente fantastico, se non fosse per il piccolo particolare che non c’è nessuna band e non c’è nessun video, almeno fino a quel momento. Tuttavia, questa è una meravigliosa storia d’un ragazzo forte, coraggioso, idealista, che, nonostante la sua giovane età, sa molto bene cosa vuole. “SING STREET” è un inno alla vita, è il percorso d’un ragazzo straordinario, che diventa uomo straordinario. È la storia d’un processo, d’una crescita. Un talento naturale, che non può che creare, attorno a sé, qualcosa di naturalmente talentuoso. Volutamente resto vaga per non rovinarvi il gusto e la sorpresa di quanto vedrete sullo schermo. Qualcosa di travolgente che vi entrerà dentro, come solo la musica e le anime “romantiche” possono essere capaci di fare. “SING STREET” fa ridere e in certi punti diventa proprio esilarante, fa sognare e vibrare di ideali, fa commuovere e riflettere malinconicamente, fa sorridere e intenerire. Una regia che intelligentemente e saggiamente accarezza i volti in primo piano per i sogni, delega al primo piano americano le decisioni, o le scelte, o le contrapposizioni e poi gioca, con lo spettatore e con le emozioni, fra soggettive e panoramiche. Ritroviamo tutta la freschezza e l’innocenza dell’adolescenza, ma anche tutta la sua forza nel credere, nel rischiare, nel desiderare. Una pellicola davvero vibrante, solida e ben costruita. Menzione d’onore va fatta per la musica, che è davvero straordinaria: autentici sensibilità e ritmo anni ’80. Va sottolineato che, John Carney ha voluto il supporto del brillante cantautore Gary Clark, sin dalle prime fasi di lavorazione, ben un mese prima dal fattivo inizio delle riprese e proprio per avere dei pezzi che riproducessero, esattamente, gli stili di quei tempi e raccontassero, dunque, anch’essi, la storia. Concludo con i personaggi, perfettamente definiti, sia nel carattere, che nell’evoluzione, seppur con semplici tratti essenziali. Veramente magistrale e altrettanto, si mostra l’interpretazione dei medesimi, decisamente naturale, coinvolgente e intensa da parte di tutto il cast, che, però, è anche molto nutrito, quindi, mi limiterò a citare i due soli attori principali: Fredia Walsh-Peelo, nel ruolo di Conor e Lucy Boynton, nella parte di Raphina.




A SPASSO CON BOB” – UNA MERAVIGLIOSA “FAVOLA” VERA

di Elisa Pedini – Dal 9 novembre al cinema, arriva il film “A SPASSO CON BOB”, per la regia di Roger Spottiswoode. Pellicola coinvolgente, empatica, toccante, delicata, che fa ritrovare il piacere d’andare al cinema. Una “favola”, che s’apprezza e s’assapora ancora di più, sapendo che è vita vera, vissuta, dall’inizio alla fine, da una persona reale e vivente. Tanto che il film è tratto dal romanzo autobiografico “A spasso con Bob”, uscito nelle librerie italiane il 18 ottobre, ma, in realtà, già un bestseller, con sette milioni di copie vendute in tutto il mondo e posizionatosi al 23° posto dei libri più venduti, in Inghilterra, negli ultimi quarant’anni. Spesso, ci sentiamo ripetere che nella vita può succedere di tutto, ma è una di quelle frasi fatte, talmente usurate, da non avere più alcun valore informativo. La vita di James Bowen, viene, all’improvviso, a portarci un arcobaleno nel cuore, a ricordarci che, davvero, nella vita, tutto può succedere, anche nei momenti più bui, anche quando s’è già toccato il fondo. “A SPASSO CON BOB” è la storia d’un’amicizia speciale, d’un rapporto profondo, che nasce per caso, come tante relazioni nella quotidianità, per diventare “il rapporto” della vita. È la storia d’un ragazzo di strada: James. Un tossico, che ha tentato mille volte d’uscire dal tunnel della droga senza riuscirci. Un barbone, che dorme per strada, fruga nei cassonetti e raccimola qualche spicciolo suonando la sua chitarra al Covent Garden Market. Insomma, James, è un outcast, è uno dei tanti “invisibili”, che popolano i bordi delle strade delle grandi città. Non ha una famiglia, o meglio, ce l’ha, ma è troppo impegnata nel suo perbenismo per occuparsi di lui e sceglie, che sia più opportuno fingere che il figlio non esista. Dal canto suo, James, ha iniziato a farsi molto giovane, ponendosi, lui per primo, al di fuori delle regole borghesi del suo entourage. Non ha un lavoro ed è abbastanza logico pensare che abbia impiegato le sue energie nel trovarsi una dose, piuttosto che nel cercarsi un impiego. Tirando le somme, questo ragazzo, ha fallito su tutta la linea. Tuttavia, ha toccato il fondo ed è stanco di tutto questo. Intraprende, di nuovo, la terapia col metadone per cercare d’uscire dalla tossicodipendenza; ma, vivendo in strada, continua ad inciampare nelle solite vecchie compagnie e ricaderci è facile. Talmente facile, che James sta a un passo dal morire. La sua assistente sociale vede in lui delle potenzialità e comprende perfettamente il problema, così, s’impegna in tutti i modi per fargli assegnare un alloggio popolare e levarlo dal pericolo numero uno: la strada. Non senza difficoltà, ci riesce. Ora, il ragazzo ha un tetto sulla testa. Lontano dalle insidie. Mentre si gode un bel bagno caldo, che per lui è una sorta di “ritorno alla vita”, sente dei rumori in casa. Pensa sia un ladro, ma quando va in cucina, vede lui: un bellissimo micione fulvo, entrato dalla finestra aperta e alla ricerca di cibo. Tenta di farlo uscire, ma ha già perso in partenza. Impossibile resistere allo sguardo implorante d’un gatto. Il giorno dopo, lo lascia fuori e va a suonare a Covent Garden. Di ritorno al suo alloggio, il micione, stremato e ferito, lo sta aspettando. Si narra che i gatti siano animali talmente empatici, da sentire quando un umano ha bisogno di loro e dunque, lo scelgano. Personalmente, condividendo, praticamente da sempre, la mia vita con dei felini, sono portata a dire che sia assolutamente vero. Tuttavia, a prescindere da questo, la vita di James è messa davanti a un bivio e cambia totalmente, nel momento in cui, decide che la vita del suo nuovo amico, cui da nome Bob, sia più importante di lui e del suo egoismo. È il primo passo verso il vero cambiamento. Da questo momento, il ragazzo di strada, che doveva occuparsi solo di se stesso, ha la pesante responsabilità della vita d’un altro esserino, randagio e solo, esattamente come lui. È il punto di rottura tra la vita di prima, fatta solo di “vorrei” e di “domani forse” e quella di oggi, fatta di scelte e decisioni da prendere, “hic et nunc”, perché in ballo c’è la vita d’un altro essere vivente. Non vi dico altro, perché la storia di questi due amici, che divengono un sinodo e dividono tutto, va davvero gustata, in prima persona, fino all’ultimo minuto del film. Momenti felici e momenti drammatici si alternano. La vita non è mai facile, ma “insieme” ci si può riuscire. “A SPASSO CON BOB” è un capolavoro di emozioni, proprio perché vita reale e c’insegna molto, anzi, meglio, ci fa ricordare molto. Menzione particolare va all’interpretazione del protagonista del film: Luke Treadway, nel ruolo, appunto, di James Bowen: una recitazione intensa, totalmente calata nella parte, che rende, con grande credibilità e naturalezza, lo spessore psicologico ed emotivo del suo personaggio, in ogni stadio della sua crescita evolutiva. Infine, non si può non citare lo straordinario Bob, nel ruolo di se stesso, potendo sostenere, con grande sicurezza, che se esistessero gli Oscar per i felini, lui, certamente, sarebbe il candidato favorito a quello per miglior gatto protagonista.




Oasis: Supersonic, dai sobborghi al mito

di Elisa Pedini – Arriva al cinema il 7, 8, 9 novembre, l’atteso film “Oasis: Supersonic” in cui si ripercorre l’ascesa degli Oasis. “Oasis: Supersonic” è diretto da Mat Whitecross, ben noto per aver girato la maggioranza dei videoclip dei Coldplay e film del calibro di “Sex & Drugs & Rock & Roll” su Ian Dury (2010), o “Spike Island” sugli Stone Roses (2012). A mio avviso, nessuno meglio di lui avrebbe potuto realizzare questo docu-film. Pellicola di forte impatto: coraggiosa, coinvolgente, graffiante, “belligerante”, ma anche incoraggiante e sognatrice. Il ritmo serrato e avvincente, con cui le immagini, tutte di repertorio, si susseguono, è proprio quello d’un videoclip. Le interviste, gestite come voci fuori campo, danno veramente l’impressione d’un racconto estemporaneo di vita vissuta. Sembra che i due fratelli parlino, lì, insieme, davanti agli spettatori, quando, in realtà, ad oggi, non si parlano più.

Il risultato di “Oasis: Supersonic” è qualcosa di spettacolare: due ore piacevoli ed emotivamente molto impattanti, che scorrono con grande fluidità. Uno specchio chiaro della vita, della storia e delle personalità dei due protagonisti: i fratelli Liam e Noel Gallagher, che hanno dato vita a un vero e proprio miracolo musicale: gli Oasis.

In soli tre anni sono arrivati a dominare totalmente le scene musicali, senza concorrenti, poi, la rottura. «Tutto troppo in fretta» dicono. Bellissimo, anche, il paragone che fanno tra il successo e una macchina da corsa potente: entrambi belli da vedere, belli da guidare, ma se non si sa gestirli, il rischio d’andare troppo veloci e perdere il controllo, è altamente probabile. La giovane età, il successo repentino e le pressioni pesanti dell’industria discografica, portano al collasso il già altalenante rapporto tra Liam e Noel. I fratelli Gallagher, tre in tutto, crescono nella realtà povera e desolante dei quartieri popolari della periferia di Manchester, con un padre assente e molto violento e una madre che deve fare tre lavori per sbarcare il lunario. È una vita difficile, una vita dura, soprattutto, quando si è piccoli e molte cose non si è in grado di spiegarsele. La violenza, poi, non ha mai una spiegazione, né una giustificazione. Mentre le botte svuotano l’anima, la rabbia la riempie. Da qui, da questa realtà, apparentemente senza scampo, Noel trova la sua evasione nella musica; Liam, il più piccolo, stenta a trovare un vero interesse e sarà una martellata in testa, racconta egli stesso, a fargli scoprire la sua passione per la musica e la successiva epiphany sarà un concerto degli Stone Roses a Manchester.

Veramente toccante e vivido il racconto delle loro vite, dalla viva voce dei due protagonisti e delle persone a loro vicine in quei momenti. Le emozioni scatenate sono vere e proprie “bombe”, che fanno accapponare la pelle. Due talenti innati e due leader naturali di altissima caratura, ma di personalità, totalmente, opposte. Un “gatto” e un “cane”, si descrivono. Da cui, le litigate, le rivalità.

Lascio a voi la sorpresa di scoprirle in modo approfondito, mentre salto direttamente a quell’aprile del 1994, quando, col singolo “Supersonic”, la band indie, proveniente dai sobborghi di Manchester, s’impone all’attenzione del panorama musicale. Sono solo esordienti, ma, nell’agosto del medesimo anno, il loro album “Definitely Maybe”, scala le classifiche e vince sette dischi di platino con oltre due milioni di copie vendute. Il titolo è un ossimoro, come i due fratelli Gallagher, direi. Dopo tanto tempo di lavoro durissimo e di gavetta nell’oscurità, finalmente, la svolta e diventano giganti della musica. Sta accadendo qualcosa di biblico, qualcosa di “supersonico”, destinato a cambiare, completamente, il panorama musicale e la vita di Liam e Noel.

Nell’agosto del 1996, gli Oasis, sono i protagonisti indiscussi della scena musicale mondiale. Hanno, letteralmente, dato vita a una realtà unica e mai vista prima, né dopo, vien da dire. I loro concerti a Knebworth raccolgono un pubblico di 250000 persone e con altri due milioni e mezzo di fans alla ricerca disperata di biglietti. Un evento storico, anzi, mitico. Per chi, come me, viveva in quel periodo i suoi vent’anni, non può non sentirsi compartecipe di quanto vede sul grande schermo e non solo, perché, oggettivamente, è un film straordinario, ma anche, per la forte carica empatica. Le emozioni suscitate dal film, si fondono e si confondono con i ricordi personali, che, sulle note delle canzoni e sulla voce, roca e graffiante, di Liam, si dipanano nella mente come un secondo, privatissimo, film. Inutile, sottolineare l’impatto interiore che, ovviamente, fa venire i lucciconi agli occhi.

Alla fine della proiezione, la sala esplode in un applauso che stenta a fermarsi. L’emozione è davvero tangibile. “Oasis: Supersonic” è un film da gustare dall’inizio alla fine. Una pellicola che, all’inizio, ho definito, anche, incoraggiante e sognatrice, perché, in questo mondo dominato dai social e dal business, di scene come quelle che vedrete nel film, non se ne vedono più. Di visionari folli e spericolati, non ce ne sono più. Questo film vuole essere, per un verso, un incoraggiamento per le nuove band di giovani a credere nei loro sogni, risvegliare la passione e saper, anche, rischiare per essa; per l’altro, un monito a prestare attenzione a non perdere il controllo e a non permettere all’industria musicale di limitare i propri orizzonti.




“JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”: CAPOLAVORO D’AZIONE E D’INDAGINE

di Elisa Pedini – Arriva nelle sale, dal 20 ottobre, l’attesissimo sequel del duro Jack Reacher, col titolo “JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”, per la regia di Edward Zwick. Pellicola, semplicemente, straordinaria. Un connubio degno di nota tra l’“action movie” e il “crime thriller”. Un film coinvolgente, avvincente, emozionante, scandito da un ritmo incalzante, che cattura l’attenzione dalla prima all’ultima scena. Nella sua indubbia spettacolarità, il film scorre solido e coerente, coinvolgendo lo spettatore in un intrigo ben strutturato, che, in certi passaggi, richiama la figura dell’hysteron proteron applicata alla cinematografia, che si attua nell’inversione dell’ordine naturale d’un evento, mostrandone prima l’effetto e poi la causa. Questa struttura, non solo consente di tenere sempre alta l’attenzione dello spettatore, ma anche di creare un forte senso di suspense. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è tratto dal libro “Never go back”, diciottesimo volume della fortunatissima saga di Jack Reacher, eroe letterario nato, nel 1997, dalla penna di Lee Child e giunto ormai a ben venti romanzi. Com’è noto, questo personaggio, affascinò talmente Tom Cruise, che, nel 2012, decise di produrre e interpretare il primo film: “Jack Reacher – la prova decisiva”, basandolo su “One Shot”, in realtà, il nono libro della saga. Notevole caratteristica, infatti, dei romanzi su questo eroe, è che non seguono un ordine cronologico, non c’è una continuità con cui familiarizzare per apprezzare il protagonista e le sue gesta. Di fatto, gli unici punti fermi sono Jack e il suo spazzolino da denti. Non per altro, la figura di questo personaggio è proprio quella dello “straniero misterioso”, una sorta di “cavaliere errante” dei nostri tempi. La sua vita nomade, scevra da ogni attaccamento, ha, però, una struttura rigida, basata su regole morali e senso di giustizia. Jack si sposta in autostop, non si ferma mai a lungo in nessun luogo ed è un ex maggiore dell’esercito americano. Il film inizia mostrandoci quattro uomini stesi a terra e ridotti proprio male, sul selciato, fuori da una stazione di servizio. Ecco, appunto, l’“effetto” di cui parlavo prima. Arriva la polizia. I testimoni riportano che, a metterli tutti e quattro ko, è stato un solo uomo, lo stesso che se ne sta, pacifico, seduto al bancone del locale. Quell’uomo è Jack. Ancora s’ignora la “causa”. Forte il contrasto che viene trasmesso allo spettatore: fuori, la notte, i lamenti dei malmenati, il vociare dei testimoni e la sbruffoneria dello sceriffo; dentro, una forte luce al neon, un bianco accecante e un uomo solo, seduto di spalle alla porta, calmo. La spiegazione di tutto, la “causa”, arriva, puntuale e in modo a dir poco spettacolare. Si tratta di traffico di clandestini e Jack li fa arrestare tutti. Quindi, il nostro “giustiziere nomade” se ne va, di nuovo, in autostop. Scopriamo che ad aiutarlo è stato il Maggiore Susan Turner, che gli è succeduta quando lui ha lasciato l’esercito. Quando Jack va a Washington per conoscerla, scopre che è stata arrestata con l’accusa di spionaggio. È subito evidente, per il nostro eroe, che c’è qualcosa di molto strano e inizia a indagare. Qualcuno lo pedina. Jack va a parlare con l’avvocato del Maggiore Turner e così, scopre che Susan aveva inviato due sue unità in Afghanistan, per indagare su una questione poco chiara relativa alle armi. I due inviati vengono ammazzati in pieno stile esecuzione e guarda caso, un giorno dopo, il Maggiore Turner viene arrestata. L’avvocato di Susan viene assassinato e le accuse ricadono su Jack. Con un espediente viene arrestato come militare. Riesce a evadere e a far scappare anche il Maggiore Turner con lui. Da questo punto, non vi dico altro perché la trama si fa sempre più intrigante in un coerente climax di tensione e conduce lo spettatore dentro a una storia di indagini fitte e avvincenti, fra pedinamenti, ricerche, testimoni e rapidi spostamenti per non essere presi, fino a dare spiegazione e soluzione a ogni enigma. A complicare ancora di più la situazione, c’è la figlia di Jack, che va tutelata, perché è un facile bersaglio per colpire lui. Vi rammento, però, quanto detto al principio sulle caratteristiche di questo personaggio: un samurai del nuovo millennio, solitario, nomade, senza legami e scevro da attaccamenti. Appare strano che abbia, al dunque, una figlia. Chi sia questa fanciulla, lo lascio scoprire a voi. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è un film che va seguito e che si fa seguire, con grande attenzione. Di azione ce n’è davvero tanta, ma tutto è calibrato e realistico, evitando così i più classici, abominevoli, cliché degli action movie americani: primo fra tutti, i tipici inseguimenti eterni con dilatazioni spazio-temporali tanto improbabili, quanto ridicole. I personaggi sono ben costruiti e le loro personalità risultano solide e credibili. I dialoghi sono sottili, acuti e vanno ascoltati, apprezzati, perché, persino quelli che possono sembrare più personali e meno utili alla trama, in realtà, sono portatori di messaggi molto importanti su tematiche molto attuali. Mi piace concludere, ponendo l’accento sulla figura del Maggiore Susan Turner, interpretata in modo squisitamente naturale e intenso da una straordinaria Cobie Smulders: una donna molto bella, intelligente, attiva, dotata di profondità e sensibilità, ma anche di grande forza e coraggio. Finalmente, una protagonista femminile realistica. Infine, molto apprezzabile è la totale mancanza d’una futile love story tra i due protagonisti, che non avrebbe dato valore aggiunto alcuno ad un film d’azione e d’indagine qual è “Jack Reacher – Punto di non ritorno.”




“LETTERE DA BERLINO”: UN CAPOLAVORO DI REGIA E INTEPRETAZIONE

di Elisa PediniDal 13 ottobre al cinema, “LETTERE DA BERLINO”, il toccante film dell’attore e regista svizzero Vincent Pérez. La pellicola è tratta dal libro “Ognuno muore solo”, di Hans Fallada, che, a sua volta, nasce da una storia vera: da un dossier della Gestapo su una coppia di coniugi come tanti, due operai, Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1942 per aver diffuso materiale anti-nazista. Una regia, magistrale e sapiente, trasla in linguaggio cinematografico, la vita di questa famiglia berlinese e tutto quello che consegue dalle loro azioni. “Lettere da Berlino” è un film profondo, coinvolgente, intelligente, da non perdere e da gustare sin dalla prima inquadratura. La trama, purtroppo, è storia e sappiamo già come va a finire, inutile illudersi che dentro un regime ci sia spazio per le idee, per l’individuo, per il dolore. Tuttavia, tanto per il libro quanto per il film, è come il materiale viene trasmesso al pubblico che conta. Qui, la regia, gioca un ruolo fondamentale. Si prende sulle spalle la pesante responsabilità di farsi muta relatrice d’un nazismo, che non è quello dei lager e delle stragi di massa, ma è quello dello stillicidio quotidiano, giocato tra terrore, delatori, umanità e vita di tutti i giorni della gente comune. Caratteristica primaria e geniale di “Lettere da Berlino”, è che la telecamera è sempre l’occhio dello spettatore, sempre. Le emozioni inconsce, che si provano, guardando questo film, sono, esattamente, le stesse, che si provano di fronte alla Storia: dolore, rabbia e soprattutto, impotenza. Quello che sta davanti ai nostri occhi è già accaduto, in un passato, che non è remoto, ma, che, è comunque “stato” e come tale, è immutabile. La telecamera è l’occhio impotente di chi guarda. Sfruttando tutta la gamma delle inquadrature, il regista relega lo spettatore, lì, sulla sua poltroncina. Essere umano e testimone, muto, della stessa violenza umana, senza scampo e senza diritto di replica. Persino nei dialoghi tra i personaggi, il punto di vista è sempre quello dello spettatore. Un occhio che indaga, che scende nello sguardo dei protagonisti e da lì nell’anima, disperata e disperante, di chi ha perso il bene più caro; ma, proprio in questa perdita, ritrova la sua dignità, la sua identità d’individuo, la sua libertà. Tuttavia e qui subentra il tocco del genio, quella telecamera, rapida entra in soggettiva nei momenti cruciali, nei momenti interiori, quelli che, la Storia, non può raccontarci, ma l’anima, si. Ora, vi prendo per mano e vi porto nel film, proprio dal punto di vista tecnico, solo l’inizio, lo spazio non mi concede d’indulgere oltre, né posso stressare la vostra pazienza; ma, mi piace che, davanti al grande schermo, voi ritroviate queste parole e prestiate attenzione alle emozioni interiori e al lavoro della telecamera. Il film si apre con un bosco dalla vegetazione lussureggiante, d’un verde brillante. Una brezza, leggera e calma, accarezza gli arbusti. Quiete e un dolce stormir di fronde. Un sorriso affiora sulle labbra, perché è una sensazione di pace profonda, quella che il nostro cervello registra. Ma i tempi sono ben calibrati: nell’esatto istante in cui, questa emozione viene realizzata, la corsa disperata d’un soldato, giovane e bellissimo, squarcia quel silenzio, devasta quella quiete. Poi, uno sparo e un altro e quella vita, si spezza. Cade rivolto al cielo. Mentre la battaglia impazza, l’inquadratura “muore” sullo sguardo d’una giovane vita che finisce e che vola fra le cime degli alberi, che non sono più quiete, ma agitate e sbattute da un vento forte. È il vento della guerra, che si combatte ai loro piedi. Quegli alberi sono come noi: testimoni impotenti. Intanto, a Berlino, gli strilloni gridano alla vittoria. La Francia è stata battuta e il Reich impera. Festa per le strade. Euforia. Non per tutti. La postina Kluge sta andando a recapitare una lettera della posta militare, battuta a macchina. È per la famiglia Quangel. Lo spettatore è sempre lì, a fare da censore muto del dolore, che trascina la postina sulla sua bicicletta, verso la casa dei Quangel, persone che lei conosce e cui deve recapitare la peggiore delle notizie. Per lo spettatore è chiaro che ha a che fare con quel ragazzo morto. È qui, che si comincia a deglutire a fatica. Anna Quangel va ad aprire e ritira la lettera. Trema, ha già capito. Come noi, del resto. Noi, spettatori, che alla morte del figlio abbiamo assistito. Noi, che c’eravamo. Va in cucina, una stanza illuminata, ma i colori sono freddi. Non il maglione di lei, non il cuore d’una madre. Dal buio dell’altra stanza, arriva Otto, il marito. Dal buio alla luce. Dal silenzio al grido. La telecamera entra in soggettiva e diventa gli occhi di Anna, sulle sue mani tremanti di madre, che straccia la busta e legge. Hans, il loro unico figlio, è morto. Da eroe, dice la missiva, per il Führer. Ma questo, non può dare conforto a due genitori. Anna e Otto, non sono iscritti al partito, ma, come tutti, devono convivere col regime. Otto è capo officina in una fabbrica di bare, dove troneggia il poster propagandistico all’arruolamento. Il primo piano americano ci mostra un Otto, attonito e devastato, di fronte a quella scritta: «Auch du» (anche tu). Come la Fenice rinasce dalle sue ceneri, così, Otto e Anna, dalla morte interiore, riaffermano il loro diritto alla vita, alla libertà. Per Otto e Anna, è giunto il tempo della verità. La trasformazione interiore di quest’uomo è scandita magistralmente. Le soggettive, che v’invito a notare con particolare cura, come, per esempio, quella di Otto sul libro del figlio e sulla cartolina del Führer, che diventa «Der Lügner» (il bugiardo), servono proprio a portarci dentro l’anima dei due protagonisti, ad andare oltre la Storia. Otto e Anna cominciano la loro rivoluzione silenziosa. La rivoluzione più temuta da qualsiasi regime: quella delle idee. In due anni, dal 1940 al 1942, scrivono 285 cartoline, la loro «Freie Presse» (stampa libera), che disseminano per Berlino, dapprima negli uffici e poi, ovunque nella città. Quasi tutte, però, finiscono nelle mani dell’ispettore Escherich. Non vi dico altro, ma ci sarebbe tantissimo da dire su questo film. “Lettere da Berlino” è un capolavoro che va visto. Il finale simbolico, ci passa un messaggio forte e preciso: le idee non muoiono mai e scavano solchi profondi. Il pensiero è l’unica caratteristica, squisitamente umana, che può volare. Infatti, proprio come gabbiani, le idee turbinano nel loro volo libero.

La fotografia, affidata al maestro Christophe Beaucarne (Tournée, Coco avant Chanel-l’amore prima del mito, Dio esiste e vive a Bruxelles), incanta come sempre. Semplicemente impeccabile e non avrebbe potuto essere diversamente, l’interpretazione d’un grande cast: Emma Thompson nel ruolo di Anna Quangel, Brendan Gleeson in quello di Otto Quangel e Daniel Brühl nella parte dell’ispettore Escherich.

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