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Emilio Scanavino: l’Alfabeto dell’Esistere

di Andrea Farano – Questa volta lasciamo da parte quel (spesso) malcelato aplomb d’imparzialità doverosamente richiesto a chiunque scriva con velleità (re)censorie e dichiariamo previamente il nostro amore incondizionato per Emilio Scanavino (Genova, 1922 – Milano, 1986), il pittore al quale riconosciamo la più alta capacità di dipingere le recondite paure ma, perché no, anche le speranze che si annidano profonde nel nostro essere.

È con questo spirito che ci siamo avviati, qualche giorno fa, all’inaugurazione della mostra allestita presso i rinnovati spazi espostivi (davvero splendidi, indipendentemente dalla mostra in corso) della Galleria Dep Art, timorosi e insieme consapevoli del fatto che più le aspettative sono alte, più la delusione è facile.
Fortunatamente il colpo d’occhio all’ingresso ha da subito certificato la qualità assoluta della selezione compiuta da Antonio Addamiano, capace di raccogliere e presentare – in concomitanza con il roboante MiArt – il meglio della produzione dell’ultimo ventennio di vita dell’artista ligure, esponente di quella corrente artistico/pittorica volgarmente conosciuta come informale e che dagli anni ’50 aveva eletto, pur con i doverosi distinguo dei mille rivoli europei, il “gesto” (ed il “segno” che ne scaturiva) a cardine e motore principale della comune dimensione espressiva.

Ci troviamo quindi di fronte a testimonianze della piena maturità compositiva di Scanavino, quando – pienamente interiorizzato il mondo giovanile fatto di tracce e presenze dall’aspetto larvale, che ne avvicinava la poetica ai contemporanei Novelli e Peverelli (ma anche e soprattutto a Wols, per guardare oltre confine), e depurato da certe innegabili suggestioni spazialiste e finanche surrealiste – il tratto segnico, che da sempre ne è l’emblema, si delinea più granitico e stentoreo.

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Il senso dell’attesa – favorito da una tavolozza di fondo quasi priva di colori – viene squarciato dalla presenza di immagini codificate e ossessive, che si rivelano da un tempo ignoto e, pur lontane da ogni figurazione allegorica, impongono all’osservatore una riflessione profondamente emotiva da cui è difficile scappare.

Quella massa spigolosa che incombe, aggrappandosi in sospensione ad una luce (speranza?) lontana, ci palesa quei segreti travagli interiori che ci legano, ci spaventano, ci trattengono e ci àncorano nel nostro immobilismo quotidiano.

Il Groviglio è il nodo psichico che non sappiamo sciogliere.
Lo Scavo nel colore è la nervatura che ci tiene in piedi.
La Traccia è la testimonianza ultima della nostra esistenza.

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Particolare attenzione dedichiamo alla serie degli “Alfabeti Senza Fine”, splendidamente rappresentata in mostra da esemplari più che significativi, dove quadrettature e reticoli – casellario sempiterno dei nostri schemi mentali e comportamentali, o gabbie dentro le quali ci muoviamo o siamo rinchiusi – accolgono e subiscono le ineluttabili tensioni che vi si annidano, rinnovando un perpetuo conflitto con l’ordine prestabilito.

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Usciamo dalla galleria, lasciando – purtroppo – alle pareti gli unici specchi capaci di mostrare come siamo fatti… dentro.

Il nodo racchiude la costrizione del destino, l’oscuro intreccio di segreti, l’impotenza dell’uomo di fronte all’oracolo.
Se lo osserviamo con un po’ di attenzione vediamo luccicare gli anelli del serpente.”
Ernst Jünger

Emilio Scanavino: Opere 1968-1986
Dep Art Gallery, via Comelico n. 40 – Milano
sino al 1 giugno 2016
www.depart.it

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