Desconocido, quando a chiamare è uno sconosciuto

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di Elisa Pedini – Dal 31 marzo sarà nelle sale italiane “Desconocido – Resa dei conti” del regista gallego Dani de la Torre. Appuntamento assolutamente da non perdere e vi spiego il perché: questo film, è la scrollata al panorama cinematografico contemporaneo che stavo aspettando da tempo. Pellicola intelligente, mordace, trepidante. Una perla di maestria, sia dal punto di vista della regia che dell’esecuzione, pronta a soddisfare anche il pubblico più esigente. Il genio del regista, Dani De La Torre, si sfida nel suo primo lungometraggio e non delude. I suoi corti, come “Por nada”, “Lobos”, “Minas”, che v’invito comunque a gustare, hanno messo in luce di lui le sue doti più peculiari: acutezza e verosimiglianza, che in “Desconocido” s’estrinsecano in tutta la loro potenza. Il suo occhio, indagatore e spietato, si mostra in una profonda introspezione psicologica dell’uomo e della società.

La trama di Desconocido è apparentemente semplice: Carlos, è un dirigente di banca, stimatissimo professionista, con una bella moglie, una bella casa e due bei bambini. Insomma, sembrerebbe avere tutto. Una mattina molto presto, riceve una telefonata dal suo capo che gli fa cambiare i piani, quindi, decide di portare i figli a scuola. A questo punto, ci viene chiarito che Carlos, quello che ha “tutto”, non ha, però, l’amore della moglie, che si mostra distante e aggressiva, né la considerazione dei figli, per nulla portati a obbedirgli e piuttosto sarcastici nei suoi confronti. Da subito, c’è qualcosa che lascia perplesso Carlos: la macchina è già aperta e sul sedile a lato del guidatore c’è un telefono che non appartiene a nessuno di loro. Sono appena partiti, quando, proprio da quel cellulare, giunge una telefonata da numero sconosciuto, “desconocido” appunto. Carlos risponde e da quel momento tutta la sua vita cambierà per sempre. Dall’altra parte della linea, un uomo lo informa che sotto i sedili dell’auto c’è una bomba e non esiterà a farla saltare se non gli consegnerà un’ingente quantità di denaro. Carlos si trova, così, incastrato tra il “mondo dentro”, dove “el desconocido” lo incalza e il “mondo fuori”, che, per ragioni diverse, lo pressa ugualmente.

È qui, che s’estrinseca tutta la magia del regista. Lo spettatore viene letteralmente risucchiato dentro l’abitacolo e catapultato in una situazione delirante. Seduto lì, sul sedile a fianco del guidatore. Vorrebbe muoversi, vorrebbe voltarsi e guardare dietro; ma è incollato lì. La cintura che blocca, il sedile e il poggiatesta che impediscono la visuale e la telecamera diviene il suo sguardo: impazzito, terrorizzato, impotente. Un climax di pathos, che sale, in modo direttamente proporzionale, alla devastazione psicologica ed emotiva del protagonista. Un ritmo rutilante, incessante, incalzante, che, come una morsa, afferra lo spettatore allo stomaco e lo trascina in un frenetico road movie per le strade della città. Luoghi familiari a Carlos, che li ha percorsi quotidianamente, come un re nella sua carrozza; ma che, ora, hanno acquisito l’aspetto nemico e ostile d’un mondo che non lo può comprendere e il suo mezzo sta per diventare la sua bara. In poco tempo, tutto quello che lui conosceva e credeva di possedere e dominare, si ribalta e solo una cosa acquisisce davvero senso: la vita dei figli.

Nonostante il fulcro della storia di Desconocido si svolga dentro una macchina, in realtà, è tutto fuorché un film claustrofobico, anzi. Carlos interagisce costantemente e attivamente col mondo esterno e tale relazione aiuta ad aumentare o diminuire la tensione del protagonista. Un’esteriorità che prende il volto d’una società cruda, basata sull’arrivismo e l’opportunismo. Dove la vittima è anche carnefice e viceversa. Dove l’inferno comune diviene una triste arena di combattimento inutile degli uomini contro gli uomini.

Pellicola cinica e vibrante che tiene lo spettatore col fiato sospeso fino all’ultimo secondo. Magistrale e penetrante l’interpretazione di Luis Tosar nel ruolo di Carlos. Figura squisitamente tipica della cinematografia spagnola quella della moglie, Marta, interpretata da Goya Toledo: una donna tremendamente emotiva, fragile, dai nervi costantemente scossi. Grandeggiante e caratterialmente opposta a Marta, è l’altra figura femminile del film: Belén, capo degli artificieri, impeccabilmente resa da Elvira Mínguez. A supportare questo capolavoro, vi è anche una spettacolare fotografia, che, a dir poco, incanta e rapisce l’occhio di chi guarda.

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