Dani de la Torre: vi racconto l’universo di Desconocido

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di Elisa Pedini – L’idea dell’intervista diretta al regista nasce dalla volontà di dare al pubblico una visione completa d’un film, dunque, non solo con l’occhio della critica, che riporta certi aspetti tecnici e le impressioni emotive che ho ricevuto nel momento in cui ho assistito alla proiezione; ma anche dal punto di vista di chi lo ha pensato e materializzato, all’interno della sua realtà personale e locale. Dani de la Torre è un giovane regista gallego, profondamente calato nella realtà sociale della sua terra, che indaga, senza mezzi termini, con lucido realismo e acuta intelligenza. Finora, si era fatto apprezzare dal mondo della critica cinematografica per i suoi pregiatissimi corti, tra i quali ricordo: “Por nada”, “Lobos”, “Minas”, reperibili on line e che v’invito a gustare. Ma, ora, lascio a lui la parola per parlarci di “Desconocido”, il suo primo lungometraggio:

 

D: Una prima domanda di rito: come nasce l’idea del lungometraggio? Perché? Quando?

R: Nasce dall’indignazione personale verso la crisi economica, gli abusi bancari e la corruzione politica; questa, mescolata con il mio desiderio di fare un film d’azione. Cercavo un progetto per presentarlo a Vaca Films, perché il cinema che fanno è quello che mi piace fare. Feci un trattato scritto e lo presentai sia a loro che a Tosar e piacque e dopo entrò anche Alberto Marini (curatore della sceneggiatura, n.d.r.)

D: Dietro alla facciata di un thriller avvincente e trepidante, leggo molte tematiche sociali già incontrate nei tuoi corti: come la inutile battaglia dell’uomo contro l’uomo, l’uomo davanti alla possibilità di morire, la solitudine davanti alle scelte importanti. È una lettura corretta?

R: Si, è una buona lettura, mi piace mostrare come siamo deboli, le nostre contraddizioni, le miserie umane; è qualcosa di ricorrente nella mia filmografia.

D: Le relazioni Carlos-Lucas e Carlos-Alejandro: che cosa sottendono davvero?

R: Come persone siamo gli unici responsabili del nostro destino e lo determiniamo con le nostre azioni quotidiane.

D: La profonda crisi economica e le conseguenti trasformazioni sociali, quanto hanno inciso nella costruzione della trama?

R: Molto, questo film nasce dalla nostra indignazione come cittadini. È la nostra maniera di protestare, di mostrare il nostro anticonformismo, il nostro malessere sociale e umano.

D: Carlos sembra un uomo che ha tutto: sicuro, bello, affermato nel lavoro, una bella moglie, una bella casa, due bei bambini; ma, in realtà, le cose non stanno così. Possiamo dire che Carlos incarni la crisi dell’uomo moderno?

R: Si, ma più che dell’uomo, della persona moderna, dell’insoddisfazione permanente, dell’eterna ricerca della felicità utopica. Del consumismo e degli stereotipi sociali che ci vengono imposti.

D: Per il pubblico italiano l’impiego della telecamera quasi al limite della follia non è usuale. Chi non conosce la tua sensibilità per l’estetica e per il realismo, potrebbe avere difficoltà a comprenderlo. Come in “Por nada” la telecamera diventa parte dell’azione per renderla credibile, per porre lo spettatore dentro alla scena stessa. Potresti spiegare al pubblico questa magia della regia?

R: Mi piace che la telecamera abbia personalità, protagonismo, perché rende tutto molto vicino, molto reale. Oggigiorno le telecamere sono parte formante della nostra vita: i telefoni, i tablet…  Tutti fanno video, nei quali la telecamera e il suo utilizzo sono i protagonisti. È una tendenza attuale che fa più credibili e vicine le trame. Io provo ad applicarlo alle mie storie, ma tentando sempre di cercare punti di vista inediti.

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