“LAND OF MINE – SOTTO LA SABBIA”: NON GUARDERETE PIÙ UNA SPIAGGIA CON GLI STESSI OCCHI

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di Elisa Pedini – In uscita nelle sale italiane dal 24 marzo, il film “Land of mine – Sotto la sabbia” del regista danese Martin Zandvliet, che ci riporta nel 1945, in uno spaccato storico di pochi mesi, da maggio a ottobre, ma che, emotivamente, sembrano anni. Pellicola dura, cruda, potente, detonante in ogni senso. Dopo questo film, non guarderete più una spiaggia con gli stessi occhi.

Gli eventi narrati in “Land of mine” sono decisamente poco noti e sono considerati tabù nella storia moderna danese. È il maggio del 1945, la Danimarca è appena diventata una terra libera, dopo 5 lunghissimi anni di dominazione nazista. Anni che hanno spezzato gli animi di tutti e spento milioni di vite. Il Reich, di fatto, vacilla da un pezzo, non ha praticamente più risorse umane e pur d’avere soldati, è arrivato a mandare in guerra tutti i maschi dai tredici ai novant’anni. Il regime sente il fiato delle Forze Alleate sul collo e temendo l’invasione da nord, dissemina le coste occidentali danesi con più di due milioni di mine anticarro e antiuomo. Dopo la caduta della Germania nazista, le autorità britanniche offrono al governo danese la possibilità di arruolare prigionieri di guerra tedeschi per bonificare la costa. L’amministrazione danese accoglie subito l’idea e la mette in pratica. La Brigata danese dirige e gestisce l’operazione. Peccato che, tutta la dinamica contravvenisse la Convenzione di Ginevra del 1929, secondo cui, è vietato obbligare i prigionieri di guerra a svolgere lavori forzati o pericolosi. Tuttavia, le regole vengono deliberatamente eluse, correggendo il testo da “prigionieri di guerra” a “persone volontariamente arrese al nemico”. Seppur ci sono discrepanze tra i dati danesi e quelli tedeschi, si stima che circa 2600 uomini, d’un’età compresa tra i 15 e i 18 anni, furono costretti a quel lavoro. Almeno la metà di loro rimase uccisa o gravemente lesa. “Land of mine” è tutto questo.

Ma, i dati storici sono vicende volute e provocate dall’uomo e allora non si può non tenere conto del “fattore umano” e di tutte le implicazioni interiori ed esteriori che ne conseguono. Qualsiasi tipo di regime totalitario è basato sulla violenza e sull’oppressione, concependo soltanto due posizioni: o a favore, o contro. I popoli invasi, macerati in uno stato di terrore costante e reale, vessati dalla violenza, prostrati dalla morte, covano in loro rabbia, desiderio di vendetta e sete di rivalsa. La furia di chi ha troppo a lungo vissuto e visto orrori indescrivibili, porta alla violenza più cieca nei confronti di qualsiasi persona o cosa divenga in quel momento il simbolo del nefando regime. “Land of mine” è, particolarmente, tutto questo.

È facile comprendere, dunque, come i tedeschi siano profondamente odiati. Poco importa che i soldati siano ragazzini, a loro volta mandati totalmente allo sbando e che poco abbiano capito delle disgrazie umane. Loro, con le loro divise e la loro lingua, sono solo l’emblema dell’oppressore, del nemico. Lasciati senza cibo e in alloggi, a dir poco, inadeguati. In quest’ottica va interpretato “Land of mine” ed è questo stato d’animo che, dalla prima scena del film, il Sergente Rasmussen comunica. Al grido di “questa è la mia terra”, sfoga tutta la sua cieca furia, in cui sono racchiusi tutto il dolore, la frustrazione e l’impotenza, patiti per anni. E allora mi domando se “Land of mine” non sia un pun, dove “mine” gioca il suo senso tra “mia” e “mina”, ma è un interrogativo che non so svelarvi poiché il regista non concede intervista. Di certo, c’è lo strazio dell’animo di Rasmussen che accoglie quel camion di disgraziati soldati-bambini con tutto l’odio di cui è capace. Che muoiano di fame o dilaniati da una mina non importa a lui, ancor meno alla Brigata danese e meno ancora alla popolazione. Ma, quei prigionieri, restano ragazzini e nei loro cuori portano ancora la capacità di sognare e d’immaginare un futuro quando saranno di nuovo a casa. È proprio quella parte d’innocenza, che si portano dentro, che finisce per spezzare lo “scudo” di Rasmussen, che passa dall’insultarli senza tregua, al chiamarli “ragazzi”, al parlare con loro, all’avvicinarsi, fino ad affezionarsi. Sono tutti nella stessa landa desolata, in mezzo al nulla, ognuno coi suoi mostri, le sue paure, il suo dolore. È un film che non lascia scampo. Ho sentito l’angoscia, ho patito la fame, ho avuto paura insieme ai protagonisti. Ho provato lo strazio dei ragazzi e la dicotomia interiore di Rasmussen tra l’odio per quei tedeschi e la pietà per quei giovani. “Land of mine” è un film sul dolore in tutte le sue sfumature. È un viaggio nell’anima umana. Pellicola talmente aspra che non ho retto e ho dovuto abbassare lo sguardo a ogni mina disinnescata, perché potevo sentire il terrore, tangibile, della morte. Sapientemente, una sublime fotografia supporta, per contrasto, i sentimenti evocati. Da un lato, una natura incontaminata, spiagge bianche, sabbia impalpabile, la luce del sole. Dall’altro, la cupezza della paura, del dolore, della solitudine, della morte. L’esecuzione è strabiliante: Roland Møller, che interpreta il Sergente Carl Leopold Rasmussen, si cimenta per la prima volta nel ruolo del protagonista e si mostra attore carismatico, espressivo e vibrante, in grado di comunicare chiaramente pensieri e sentimenti anche attraverso uno sguardo. Il cast dei ragazzi è davvero eccezionale, soprattutto se si considera che sono tutti dilettanti.

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